Buona domenica, oggi inizio con una riflessione. Voi avete qualche rimpianto? Io si, molti, anzi moltissimi. Uno di questi riguarda la mia tesi di laurea che poteva essere declinata in modo diverso magari con uno sguardo oltralpe, però ai miei tempi il programma Erasmus non esisteva quindi mi sono dovuta adattare. E ho sempre rimpianto di non avere messo insieme le genealogie e il genere artistico che più mi appassiona: il ritratto. Trovo assolutamente affascinante guardare negli occhi i personaggi storici, soprattutto se dipinti da grandi artisti, e mi perdo sempre nei musei e nelle gallerie che raccolgono queste opere. Al Louvre vado sempre a fare un saluto all’enigmatico Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca e ad Anna di Clèves (eh si, è al Louvre) e la National Portrait Gallery è uno dei miei luoghi preferiti a Londra. Mi incuriosisce la parte artistica ma di più le vicende legate alla realizzazione del ritratto. Per questo primo episodio gioco in casa e vi porto a Urbino.
Chi è davvero la Muta di Raffaello, questa enigmatica signora che deve alle labbra ermeticamente sigillate il soprannome con cui è universalmente nota?
L’ipotesi numero uno è anche quella più lineare: si tratterebbe di Giovanna da Montefeltro, secondogenita del grande duca Federico e di Battista Sforza. Giovanna era nata nel 1463 o nel 1464 e aveva sposato Giovanni Della Rovere signore di Senigallia, Prefetto di Roma, valente e apprezzato condottiero, ma soprattutto nipote di papa Sisto IV e fratello del cardinale Giuliano, futuro papa Giulio II.
Della Rovere, non solo papi
Le fortune della famiglia iniziano con Francesco Della Rovere, papa Sisto IV (1414-1484) il cui fratello minore Raffaele è padre di Giuliano (papa Giulio II) e di Giovanni (1457-1501) marito di Giovanna da Montefeltro figlia di Federico duca di Urbino. Giovanna ha un fratello minore Guidubaldo che non avendo figli adotta il nipote Francesco Maria Della Rovere. Da questi e da Eleonora Gonzaga (figlia Francesco Gonzaga e Isabella d'Este) discendo i duchi di Urbino della famiglia Della Rovere che si estinguono nei maschi nel 1631. Il ducato di Urbino non è una proprietà personale della famiglia ma un vicariato in temporalibus della Chiesa che può passare solo ai maschi (si vabbè era arrivato ai Della Rovere attraverso la discendenza femminile ma guarda caso nel periodo in cui era papa Giulio II) quindi con la fine della dinastia le terre rientrano nello Stato pontificio. L'ultima dei Della Rovere è una donna, Vittoria che sposa Ferdinando II Granduca di Toscana e si porta in dote tutto il patrimonio personale dei duchi di Urbino, fra cui le opere d'arte, la biblioteca del duca Federico e persino le armature. Per questo oggi a Firenze ci sono dipinti che in origine ornavano il Palazzo ducale di Urbino come la Venere di Tiziano o il dittico dei duchi di Piero della Francesca.
Colta come entrambi i genitori, ma anche energica e abile governante, Giovanna regge lo Stato con pieni poteri in assenza del marito e poi, dopo la sua morte nel 1501, in nome del figlio Francesco Maria.
Quando nel 1502 Cesare Borgia si appresta a mettere le mani su Senigallia (dove vendicherà nel sangue la congiura di Magione organizzando la celebre strage dei suoi oppositori) e su tutti i possedimenti dei Montefeltro, la donna fa spargere la voce che si dirigerà via mare verso Venezia e grazie a questo diversivo riesce a mettersi in salvo fuggendo, travestita da frate, verso la Toscana. A Firenze la signora di Senigallia viene accolta con gli onori dovuti al suo rango dal gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini il quale, nonostante i tempi difficili e il rischio di una ritorsione da parte di Cesare Borgia, non esita a offrire la sua protezione alla sorella dello spodestato duca di Urbino.
Dal padre Giovanna ha ereditato il carattere, il coraggio e l’intelligenza ma anche la passione per le arti, però lei ci tiene ad aiutare soprattutto gli artisti della sua Urbino. Giovanni Santi, per esempio al quale, nel 1490, per festeggiare la nascita dell’atteso erede, commissiona una Annunciazione, ma è soprattutto suo figlio Raffaello che le deve l’inizio di una carriera folgorante. Nel 1504 la “Prefettessa” chiede al giovane artista un San Michele, ma soprattutto “raccomanda” il giovane urbinate all’amico fiorentino Pier Soderini e al cognato, papa Giulio II.
Ci sarebbero quindi ottimi motivi per ritenere il ritratto un omaggio del pittore alla sua protettrice, ma qualche data non coincide del tutto perché il dipinto quadro raffigura una donna ancora giovane e Giovanna intorno al 1507, periodo a cui risale l’opera, ha più di 40 anni, un’età avanzata per l’epoca. Nell’ottobre del 1507, Raffaello fa ritorno a Urbino poiché deve riscuotere dal Duca un credito per alcune lavori commissionati dai Montefeltro-Della Rovere. Quali lavori?
Qualche anno prima il pittore ritratto a Elisabetta Gonzaga, l’infelice moglie del duca di Urbino Guidubaldo, mettendole in fronte un gioiello a forma di scorpione e poi? Nessun altro della famiglia si è avvalso di questo eccezionale artista? Probabilmente si, visto che deve essere pagato.
I personaggi che in quel periodo possono avere commissionato dei dipinti al Sanzio sono solo due: Giovanna appunto e sua figlia Maria la quale, guarda caso, nel 1507 ha ventuno anni. Il fazzolettino che stringe nella mano destra, il corsetto verde scuro e la reticella di filo nero visibile, prima dei precedenti restauri, sui suoi capelli, ci dicono che la donna è vedova. E Venanzio da Varano, che Maria Della Rovere ha sposato quando aveva solo tredici anni, è stato trucidato nella Rocca di Pergola, insieme al padre e ai fratelli, per ordine di Cesare Borgia.
Rimasta sola, Maria viene accolta, insieme al suo bambino, nel Palazzo ducale dallo zio Guidubaldo, e trova modo di consolarsi. A Urbino infatti la giovane donna diventa l’amante di Giovanni Andrea Bravo da Verona, «gentile e formosissimo cavaliere», dal quale, si dice, ha avuto un figlio. La corte feltresca è colta, progressista, intellettuale, ma sulla condotta morale delle dame, specie se strettamente imparentate con il duca, non transige. Così un giorno nella sala da scherma del palazzo il giovane cavaliere viene pugnalato a morte.
Autori dell’omicidio che potremmo anche definire “delitto d’onore”, sono un dispensiere di palazzo e Francesco Maria Della Rovere, fratello minore di Maria ed erede in pectore del ducato di Urbino.
Il coltissimo Guidubaldo, unico maschio di Federico da Montefeltro, non ha eredi (molto probabilmente è impotente) e quindi nel 1504 adotta il figlio della sorella; l’accordo familiare prevede inoltre che Francesco Maria Della Rovere sposi Eleonora Gonzaga, figlia di Isabella d’Este e nipote di Elisabetta Gonzaga, consorte di Guidubaldo.
Impulsivo e sanguigno, il giovane Della Rovere trova disdicevole la relazione della sorella e quindi decide di ripulire l’onore della famiglia.
Un «dispiacevol caso» così, in una lettera del 12 novembre 1507 Baldassar Castiglione, un habitué del Palazzo ducale, definisce la vicenda sulla quale torna in una lettera del giorno 21, in cui dà per chiuso l’ “incidente”. «La novità… passata cum qualche disturbo» evidentemente ha suscitato clamore e il comportamento di Francesco Maria non deve essere stato approvato dallo zio, ma ormai è tutto finito. «Le cose sono acquetate» sicché «el signor prefetto» di Roma [il giovanotto ha ereditato la carica del padre] è a Urbino, «senza altra memoria de fastidio alcuno».
Il fatto che si preferisca tacere sull’assassinio dell’amante di Maria e la reticenza con cui Castiglione accenna all’episodio indicano qualche difficoltà. L’omicidio è stato organizzato a freddo, con un tranello e invece di pulire l’onore dei Della Rovere l’ha ulteriormente macchiato, tanto è vero che la storiografia locale, sempre benevola con lo splendido Francesco Maria, preferisce ignorarlo.
Insomma lo scandalo viene messo a tacere e attorno a Maria (che si risposerà con Galeazzo Maria Riario Sforza, figlio della celebre Caterina Sforza e anche lui nipote dei papi Della Rovere) cala una specie di congiura del silenzio. Sul ritratto, forse terminato poco prima dell’assassinio, aleggia già un’atmosfera drammatica, la donna ha oscuri pensieri, forse sente la tensione o magari presagisce l’imminenza di una tragedia. Opportunamente “dimenticato” a Urbino il dipinto perde anche il nome e quando, nel 1631, finisce a Firenze con l’eredità di Vittoria Della Rovere, ultima discendente dei duchi, è già la “Muta”.
L’ignota signora resta agli Uffizi fino al primo ventennio del Novecento ma nel 1927 Benito Mussolini, che vuole farsi benvolere con azioni poco impegnative ma di grande impatto mediatico, accondiscende a una richiesta degli urbinati i quali chiedono di avere in città almeno un’opera del grande Raffaello. Per volere del Duce la “Muta” lascia dunque gli Uffizi per tornare a Urbino.
A Firenze le faccenda non va giù, infatti l’opera, prestata per la mostra del 1940 sul Cinquecento Toscano, non viene restituita e il “sequestro” complice anche la guerra dura fino al 1947. A nulla serve la presa di posizione di un intellettuale come Pietro Calamandrei e cade nel vuoto anche l’appello del sindaco del capoluogo toscano Giorgio La Pira sull’ “opportunità e il diritto che le opere d’arte non vengano arbitrariamente tolte dal luogo in cui furono create”, dando per certo non si tratti di una delle figlie o della nipote del grande Federico da Montefeltro bensì di una donna fiorentina.
Le “tribolazioni” della “Muta” comunque non sono finite perché nel 1975 il dipinto sparisce misteriosamente dal Palazzo ducale insieme alla Flagellazione e alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. I tre preziosi dipinti verranno ritrovati in Svizzera più di un anno dopo. Ma questa è un'altra storia...
Ci sentiamo la settimana prossima, ma se nel frattempo ci sono anche i miei ebook della serie
A presto
Marina
Grazie, che piacere!
Grazie! Interessantissimo come sempre
Buona domenica